venerdì 25 novembre 2016

Internauti INTERNATI

La notizia mi sembra clamorosa: in Cina 24 milioni di ragazzi, dai 13 ai 18 anni, sono dipendenti da Internet. Passano le giornate incollati allo schermo, trascurano gli studi per giocare on line, rubano per pagare le scommesse.Hanno smesso anche di dormire, si stanno rovinando la salute.
Per disintossicarli, il governo di Pechino li ha spediti nei campi di rieducazione: caserme dove i giovani sperimentano la disciplina dura e usano la ramazza al posto della consolle. Il percorso di cura ha molte caratteristiche militari: i pazienti indossano la divisa mimetica, corrono all'alba, fanno esercitazioni fisiche estenuanti.
Tao Ran, il colonnello che dirige una base, dice che l'eroina digitale provoca danni cerebrali, calo della vista, dolori, disordine alimentare: sintomi comuni a chi si droga. E annuncia di aver guarito 8 mila ragazzi in 10 anni. Sarà, ma il numero dei guariti mi sembra esiguo. E poi un mese di cura costa 7 mila yuan, cioè un sacco di soldi in Cina.
Davvero non ci sono altri metodi più efficaci e meno estremi per curare questi ragazzi? E
che fine ha fatto quell'antico precetto che diceva: meglio prevenire che curare?

martedì 8 novembre 2016

New Delhi chiusa per smog

Non si vede l’alba da almeno una settimana. Ogni tanto si scorge una sfera incandescente che affonda in un abisso di polvere. È il sole. Il sole di Delhi che soffoca nel peggior smog degli ultimi 20 anni, a livello di allarme «severo»: 1800 scuole pubbliche chiuse per tre giorni, costruzioni e abbattimenti edilizi interrotti per 5 giorni, proibiti i generatori a diesel per 10 giorni, sospesi tutti gli incontri sportivi. 
C’è chi si non riesce a dormire perché gli bruciano i polmoni anche dentro stanze con l’aria condizionata, chi trova smog nei corridoi di alberghi e palazzi. 
Chi può permetterselo scappa dalla città. Auto e furgoncini carichi di valigie, alla ricerca di una boccata d’aria pulita dopo giorni a tossire dentro le mascherine anti-smog. Molti decidono di andarsene per sempre da Delhi, non riuscendo più a convivere con malattie polmonari, malesseri e insonnia. Fuga da quella Delhi che doveva essere, sì, una seconda Pechino, ma che per il momento dai cinesi ha ereditato solo l’inquinamento record, che ha fatto anche chiudere la centrale a carbone di Badpur.
Parliamo di un livello di polveri salito 15 volte oltre il livello di sicurezza indiano e 70 volte oltre quello dell’Organizzazione mondiale della sanità: 900 microgrammi per metro cubo, visibilità sotto i 400 metri. Cifre paragonabili al Grande Smog di Londra del 1952 che causò la morte di 4 mila persone. E chi non può scappare, sfila per protesta con cartelli che dicono: «Non siamo Hiroshima».
Chi sono i colpevoli? Con il raffreddarsi dell’aria, l’inquinamento peggiora sempre e le cause sono, oltre al traffico, anche i molti fuochi a cielo aperto, le fabbriche e la cementificazione di una città, 18 milioni di abitanti, già sovrappopolata. Il tutto peggiorato dalla siccità. La causa principale sono gli agricoltori del Punjab, Stato confinante dove in questa stagione bruciano la parte del grano che rimane in terra dopo il taglio delle spighe. «Siamo in una camera a gas» ha detto Kejriwal, disperato. Dal satellite si vedono enormi nuvoloni neri che dalle campagne, spinte da venti provenienti da nord, portano veri e propri Godzilla di fumo alti chilometri fin sopra la metropoli. 
E poi c’è stato il Diwali, la Festa delle Luci, forse la più importante celebrazione induista annuale, quando moltissime città si trasformano in un orgia di botti, deflagrazioni e fuochi d’artificio, seguiti da dense onde di caligine.
La soluzione migliore al momento pare sia il «cloud seeding», ovvero la pioggia artificiale. Si tratta di spruzzare sale o ioduro d’argento dai jet sulle nuvole per causare condensa e precipitazioni. Probabilità di successo: poche.
Naturalmente, essendo in India, non può mancare l’aspetto religioso e pop. Da giorni è in viaggio verso Delhi il «Baba Ambiente», guru che promette di bruciare legni sacrificali speciali (altro fumo?) per «scacciare il Demone dell’Inquinamento», acquietando così 330 milioni di divinità dell’induismo. Intanto la nuova moda sui social è quella degli «smogfies»: farsi selfie nello smog indossando mascherine che poco possono fare per ridurre l’avvelenamento da polveri sottili.

domenica 6 novembre 2016

Car sharing e car pooling

Il car sharing, che in inglese vuol dire letteralmente “condivisione dell'automobile”, è un servizio che permette agli utenti di poter prenotare una delle auto messe loro a disposizione, utilizzarla e parcheggiarla, pagando esclusivamente l'utilizzo in minuti o in chilometri percorsi.
Un cittadino iscritto al servizio, attraverso una app installate sul proprio cellulare, riesce ad individuare l’auto disponibile più vicina a lui, può prenotarla e raggiungerla. A questo punto, attraverso una card magnetica o direttamente tramite app, l’auto si apre e può essere utilizzata per tutto il tempo che occorre. Una volta terminato l’utilizzo l’utente parcheggia l’auto, o nei parcheggi pubblici di determinate aree della città, o in quelli del servizio stesso e scende dall’auto, che torna ad essere libera e pronta per il prossimo utente. Tra i vantaggi dell’utilizzo del car sharing in numerosissime città c’è la possibilità di entrata libera nelle ZTL (zone a traffico limitato) e il posteggio gratuito entro tutte le strisce blu, che normalmente sarebbe a pagamento.

Il car pooling si differenzia dal primo modello, poiché in questo caso si tratta dell'utilizzo della stessa automobile da più persone per condividere uno spostamento. Si pensi ad esempio a dei lavoratori che devono raggiungere lo stesso luogo di lavoro. A differenza del car sharing, che prevede l'utilizzo dell'auto presa tra quelle della flotta di un’azienda che eroga il servizio, per il car pooling si usa di solito l'auto privata di uno dei passeggeri, che poi dividerà con gli altri tutte le spese del trasporto. Nel tempo diversi siti online hanno creato delle vere community sulle quali si possono offrire passaggi, o trovare utenti che percorrono il proprio stesso tragitto e cercano accompagnatori. Sugli stessi siti è possibile lasciare informazioni sui vari utenti, feedback sui viaggi percorsi e ogni tipo di informazione, in modo da rendere più trasparente e social questo servizio. In Italia sono sempre di più quelli che scelgono il car pooling anche per i lunghi spostamenti.

I vantaggi di entrambi i modelli sono semplici da immaginare, sia a livello economico che ambientale. Infatti attraverso il car sharing, si può evitare l'acquisto e le spese di manutenzione di un’ auto (assicurazione, tasse varie, benzina, usura, parcheggio, lavaggio) utilizzando una vettura esclusivamente per il tempo che necessita lo spostamento, o per il chilometraggio; il car pooling,  invece, permette di dividersi le spese di ogni tratta, svuotando di fatto le strade. Ipotizzando una copertura totale del servizio si avrebbero addirittura 4 auto su 5 di quelle che vediamo perennemente sulle nostre strade ferme ai box, migliorando sia la situazione stradale che quella ambientale delle nostre città.

venerdì 28 ottobre 2016

Tunnel dei record


Con un anno d'anticipo sul previsto (quando si dice la puntualità svizzera!) lo scorso 10 giugno è caduto l'ultimo diaframma del tunnel ferroviario del San Gottardo. Una cerimonia solenne, con i capi di Stato europei, ha festeggiato l'opera voluta da un referendum votato dagli svizzeri nel 1992. L'hanno realizzata lavoratori di 15 Paesi impiegati in tre turni, sino a 2400 unità al giorno.
E costato 11 miliardi di euro, non un centesimo di più di quanto era previsto. Dopo 17 anni di lavoro, la galleria entrerà in servizio il prossimo 11 dicembre.
E il tunnel dei record intanto, con i suoi 571 chilometri, è il più lungo del mondo, superando quello di Seikan, in Giappone (53,9 Km). Eccezionali anche le tecnologie applicate: dalle gallerie di connessione alle vie di fuga, dov'è possibile uscire in entrambe te direzioni; dai dispositivi delle fermate d'emergenza alle condotte alimentate da ventilatori e dal flusso dell'aria spinto dal passaggio dei treni.
La galleria si estende da Erstfeld (portale Nord, nel cantone di Uri) fino a Bodio (portale Sud, Can-ton Ticino). Vi potranno circolare 260 treni merci e quelli passeggeri impiegheranno 20 minuti per attraversarlo. I convogli raggiungeranno una velocità di 249 Km l'ora (160 quelli merci). Si risparmieranno 45 minuti da Milano a Zurigo, un viaggio di tre ore.
L'obiettivo principale, però, è quello di trasferire su rotaia gran parte del traffico commerciale che oggi percorre, nei due sensi, la dorsale tra il Sud della Germania e il Nord dell'Italia. Gioverà non soltanto all'economia, ma anche all'ambiente: meno tir, meno emissioni inquinanti. Adesso mancano la galleria del Brennero, che dovrebbe terminare nel 2025, e la Torino - Lione prevista per il 2030.

La memoria corta

Le ultime ricerche neurologiche confermano che la nostra memoria è sempre più corta. Colpa di Internet che sta modificando la soglia di attenzione e la capacità di avere ricordi condivisi. I sempre più invasivi social media cambiano il nostro cervello. Nicholas Carr (autore di Internet ci rende stupidi?) spiega come ormai «accettiamo la perdita di concentrazione e di capacità di mettere a fuoco un solo argomento, in cambio dell'abbondanza di notizie».
Come a dire che i nativi digitali, sommersi dalle informazioni, stentano ad approfondire un argomento e tutto diventa nebbia.
Supereremo anche questo scoglio. Del resto, è un fenomeno che si ripete nella storia umana: ogni volta che "l'homo sapiens" ha costruito uno strumento fondamentale - l'elettricità, le auto, i cellulari - ha modificato la vita e quindi anche un poco il cervello.

domenica 21 agosto 2016

Il futuro dell'auto è elettrico

I Paesi Bassi si apprestano a compiere il prossimo passo verso un futuro senza auto a benzina e diesel. A ottobre il Parlamento tornerà a discutere la proposta di vietare dal 2025 la vendita di nuovi veicoli con motore a combustione. Tra nove anni dovrebbe essere messa al bando solo la vendita di nuovi veicoli a benzina e diesel; chi ne possiede già uno potrà continuare a circolare.  

La decisione assume un forte significato simbolico, tanto più che i Paesi Bassi non sono gli unici a voler dire addio alle auto a benzina e diesel. In India, ad esempio, il governo vorrebbe veder circolare solo veicoli elettrici entro il 2030. In Norvegia, un Paese che già oggi è all’avanguardia sul fronte della mobilità pulita, grazie a un generoso sistema di sgravi fiscali a favore delle auto elettriche, il governo starebbe discutendo un piano per proibire dal 2025 nuovi veicoli a benzina e diesel.

Il futuro verde è alle porte. Voi giovani guiderete senz'altro auto elettriche.

domenica 14 agosto 2016

L'invenzione della lavagna

La cittadina di Concord, un paesino del Vermont, alla fine del Settecento non arrivava a contare mille abitanti. Nel 1823 vi arrivò un giovane predicatore di nome Samuel Read Hall, americano di Croydon, nel New Hampshire, fresco della nomina di prete e con qualche anno di esperienza d'insegnamento alle spalle.
Trovando la chiesa e la scuola di Concord troppo piccole e soprattutto inadatte al loro scopo, Hall accettò la missione a patto che gli venisse data la possibilità di tenere corsi di formazione per gli insegnanti del paese. Con uno stipendio di 300 dollari annui, fondò la Columbian School, la prima scuola americana per la formazione di docenti, e iniziò le lezioni. I suoi seminari parlavano di morale, di filosofia, di etica.
Durante le sue lezioni Hall introdusse un nuovo sistema d'insegnamento, da lui stesso ideato: fin dalle sue prime esperienze di docenza, a Rumford, utilizzò una grande lastra di roccia tenera e di colore scuro, sulla quale illustrava le lezioni con un pezzo di gesso; uno strumento assolutamente nuovo, che non ha più abbandonato le aule di tutto il mondo. Inventò quella che in Italia chiamiamo "lavagna", visto che il mariale di cui sono composte queste lastre di pietra, l'ardesia, è chiamata anche "pietra di Lavagna".
Hall utilizzò la lavagna per spiegare le lezioni durante tutta la sua carriera di insegnante.
Hall, infatti, fu soprattutto un uomo di chiesa, un educatore più che un insegnante; non si sentiva un inventore, tanto meno un imprenditore. L'idea interrompere lezioni e prediche, a cui si era dedicato per tutta la vita, per produrre e vendere la sua invenzione non lo toccò mai nemmeno per un istante anche se, con il senno del poi, possiamo dire che l'affare sarebbe stato enorme, basti pensare alla diffusione che avuto la lavagna nelle scuole di tutto mondo.

lunedì 8 agosto 2016

8 agosto 1956, la tragedia di Marcinelle in Belgio

Sono le 8 e dieci del mattino dell'8 agosto 1956, sessant'anni fa. Una colonna di fumo nero si leva dalla miniera di carbone di Marcinelle, a Charleroi, in Belgio. A 975 metri di profondità si scatena l'inferno. Dei minatori scesi nel pozzo per il primo turno 262 muoiono, di cui 136 italiani.
Gli uomini si erano appena calati e l'estrazione era cominciata quando sulla piattaforma del piano 975, per un malinteso, la gabbia si avvia prima del tempo mentre un vagone mal inserito oltrepassa uno degli scomparti filando via verso la superficie, guadagnando velocità e danneggiando due cavi elettrici ad alta tensione. Un lampo e poi l'inferno: le fiamme avvolgono travi e strutture in legno e solo sette operai riescono a risalire in superficie accompagnati dalle prime volute di fumo nero e annunciando la tragedia che si sta compiendo.
I soccorritori tentano l'impossibile e sfidano la temperatura infernale causata dall'incendio. Il giorno dopo gli uomini sono ancora prigionieri: l'incendio non ha toccato chi lavora ai livelli più bassi della miniera e per giorni si spera di poterli trovare ancora in vita. Ma all'alba del 23 agosto i soccorritori tornano in superficie e le parole pronunciate da uno di loro suonano come un macigno: "Tutti morti". Li hanno trovati a 1.035 metri di profondità, avvinghiati gli uni agli altri in un'ultima disperata ricerca di aiuto e di solidarietà.
Quel giorno tante povere donne chiamano invano nomi italiani. Le grida, i pianti, le maledizioni formano un coro tragico finché le donne non hanno più voce e lacrime per piangere. Solo la pietà e l'intuito dell'amore permetteranno, in alcuni casi, di riconoscere i corpi arsi dalle fiamme. Bandiera nera per l'Italia e per i 406 orfani che sempre malediranno Marcinelle. E' in lutto il Paese dei poveri, degli emigranti, "merce di scambio" tra i governi italiano e belga che nel '46 firmarono l'accordo "minatori-carbone": l'Italia forniva manodopera (47mila uomini nel '56) in cambio di carbone.
Partiti da casa con un fiasco di Chianti e tre pacchetti di sigarette, sono inchiodati sotto un cielo perennemente grigio di fumi bassi, un lavoro che abbrutisce e a stento sfama, il grisou (pericoloso gas sotterraneo) in agguato, i mucchi di scorie come nere sentinelle, umide baracche come case con appiccicate le cartoline illustrate di paesi col campanile in mezzo e la campagna attorno, un bicchiere di vino cattivo e una voglia disperata del sole di casa. In Belgio si muore di grisou, di fuoco, di mancanza di sicurezza nei pozzi, ma si muore anche più lentamente, senza accorgersene, di carbone che entra nei polmoni, di birra, di fatica, di nebbia, di muffa, di nostalgia. Vite vendute per un sacco di carbone.

sabato 9 luglio 2016

"Alza la testa", campagna contro l'uso del cellulare in strada

L’abitudine di controllare ossessivamente lo smartphone anche quando si cammina per strada è diventato un autentico problema di sicurezza in Corea del Sud, tanto da indurre le autorità a prendere provvedimenti. Nelle strade di Seoul sono stati posizionati segnali che invitano i cittadini a sollevare la testa, specialmente quando ci si trova in prossimità di incroci molto congestionati e pericolosi.
I risultati di questa campagna, però, sembrano essere piuttosto deludenti, forse perché la segnaletica non viene nemmeno vista dai pedoni intenti a controllare mail, profili social e messaggi in arrivo sul proprio smartphone.
Secondo le stime del governo sudcoreano, la popolazione coreana passa in media 4 ore al giorno attaccata allo smartphone e il 15% ne è psicologicamente dipendente.
E tu cosa ne pensi? E' un problema anche italiano? Dei ragazzi o degli adulti?
(commenta il post)

mercoledì 6 luglio 2016

Una macchina da soldi

È risaputo che i videogiochi per Android ed iOS fanno guadagnare tanto, ma che gli sviluppatori possano guadagnare 5 milioni al giorno con un singolo titolo può sembrare fantascienza.
È chiaro ormai, il settore dei videogiochi per smartphone e tablet è un grosso affare! Un affare di ben 2 miliardi di dollari l'anno in alcuni casi.
Stando alle informazioni rivelate da una recente ricerca di mercato svolta negli USA, i videogiocatori su smartphone e tablet sono più di 147 milioni ed arrivano a spendere un totale di oltre 380 milioni di dollari al mese.
Sapevate che ci sono videogiochi per smartphone e tablet in grado di far guadagnare circa 5 milioni di dollari al giorno? Stiamo parlando dei famosissimi Clash of Clans e Candy Crush.
Clash of Clans sviluppato da Supercell è l'applicazione Android che ha registrato più incassi in assoluto in ben 85 nazioni su 101. Tra versione Android ed iOS, Clash of Clans, incassa poco meno di 5 milioni al giorno. Lo scorso anno Supercell, con solo Clash Of Clans ha incassato quasi 2 miliardi di dollari, ecco spiegata l'enorme mole di cloni presenti sui vari store mobile.
Ma come fanno due giochi per smartphone a generare così tanto denaro? Sia Clash of Clans che Clash Royale, uno più strategico l’altro più puzzle game, si basano sul meccanismo del free-to-play: il titolo può essere scaricato e giocato gratuitamente, anche se acquistando soldi virtuali con denaro reale si possono sbloccare più velocemente potenziamenti e avere la meglio sugli avversari. Grazie a questo meccanismo, le due app insieme generano circa un milione di dollari di fatturato ogni giorno.
Oltretutto è anche diseducativo: fa passare il concetto che con i soldi, si può comunque vincere. Spero che voi, miei cari lettori, non vorrete buttare così i vostri soldi.

giovedì 23 giugno 2016

Fibra ottica comunale

Sembra una rivoluzione, soprattutto se si considera la condizione di alcuni paesi come l'Italia. Da noi bisogna affidarsi alla buona volontà delle società di telecomunicazioni e nella migliore delle ipotesi dello Stato, ad Ammon ci ha pensato il consiglio comunale.
Bisogna precisare che negli Stati Uniti e in molti altri paesi la diffusa presenza della TV via cavo agevola la posa delle reti in fibra. Non c'è bisogno di grandissimi investimenti, spaccare strade o domandare decine di permessi. Basta impiegare i cavidotti esistenti. 
Ad Ammon è stata realizzata una rete di 30 km di fibra che collega le strutture pubbliche più importanti e copre l'area cittadina che è di circa 7,6 km quadrati. Insomma, la città è piccolina e non supera le 14mila unità.
Prima di procedere gli amministratori si sono assicurati di poter contare sul sostegno di almeno il 50% della popolazione; con una soglia inferiore il piano finanziario sarebbe stato insostenibile. Fortunatamente in alcune aree hanno rilevato una potenzialità del 70%.
La prospettiva è che i cittadini interessati paghino una tassa di circa 10/15 dollari al mese per ripagare la rete e l'abbonamento degli operatori che saranno di 15 dollari al mese per una 20 Mbps e 25/30 dollari al mese per una 100 Mbps. Complessivamente si parla di una cifra compresa tra 41 dollari (36 euro) e 61 dollari (54 euro) al mese, che considerata l'efficienza e la qualità del servizio è più economica rispetto agli standard di mercato.
Il valore aggiunto ulteriore è che dal portale del comune nel caso si voglia cambiare operatore si può procedere con un click ed effettuare la transizione immediatamente. Sul sito sono presenti tutte le offerte disponibili.

martedì 21 giugno 2016

Solar Impulse 2, l'aereo a energia solare atterrato in California

La traversata del Pacifico è riuscita. La nuova tappa dell'aereo a energia solare Solar impulse 2, che ha realizzato l'impresa dopo tre giorni di volo, è in California. Partito il 21 aprile dall'arcipelago americano delle Hawaii, dove aveva dovuto fare un lungo scalo tecnico per la riparazione delle batterie, il Solar ha finalmente sorvolato l'oceano, parte molto delicata e rischiosa del viaggio vista l'assenza di luoghi dove atterrare in caso di emergenza.
Bertrand Piccard, uno dei due piloti svizzeri che con André Borschberg sta portando avanti l'impresa, è atterrato a Mountain View a sud di San Francisco, dopo un volo di 62 ore non-stop senza carburante. Il velivolo monoposto è partito il 9 marzo del 2015 da Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti) e dopo tappe in Oman, Birmania, Cina e Giappone è arrivato nelle Hawaii il 3 luglio dell'anno scorso. Lì è stato costretto a una lunga sosta per gravi danni alle batterie solari. L'aereo, che di giorno sfrutta l'energia solare per ''ricaricarsi'', di notte scende a quote più basse per sfruttare l'elettricità accumulata. La traversata del Pacifico era la parte più rischiosa del giro del mondo.
Il Solar Impulse 2, aereo più grande e leggero del mondo, è costruito in fibra di carbonio, ha un’apertura alare di 72 metri (molto più ampia di quella del Boeing 747) e pesa 2300 kg. Frutto di un progetto dell'Università di Losanna (Svizzera) costato cento milioni di euro, il velivolo - che ha una velocità di crociera di 90-100 km/h - è dotato di quattro motori elettrici con potenza media di otto cavalli, alimentati da 17mila celle fotovoltaiche in silicio.
Il Solar, proseguendo il suo viaggio attorno al mondo, farà una sosta a New York prima di tentare il volo transatlantico verso l'Europa, per tornare infine negli Emirati Arabi. Una sfida che proietta verso l'uso delle energie rinnovabili su scala mondiale, a cominciare dal trasporto aereo.

lunedì 13 giugno 2016

Sandford Fleming, l'inventore del fuso orario

Nel 1876 l'ingegnere Sandford Fleming, canadese ma nato in Scozia, era in viaggio in Irlanda. In tasca aveva il suo biglietto, che recava ovviamente l'orario in cui il treno sarebbe dovuto passare; per un errore, però, il biglietto era stato stampato con la scritta "p.m" anziché "a.m. ". Fleming aspettò invano il treno, ma mentre era fermo in stazione cominciò a ragionare sulla necessità di sincronizzare l'ora in tutto il mondo. All'epoca, infatti, non era possibile sapere che ora fosse in quel preciso momento in un'altra parte del mondo.
La nascita dei trasporti ferroviari (Fleming era l'ingegnere capo delle ferrovie canadesi) e delle prime telecomunicazioni rendeva però importante avere un metodo per sapere l'ora delle diverse città, soprattutto quelle più lontane. Nella pace della stazione vuota cominciò a pensare al fuso orario: se la Terra compie un giro intorno a se stessa in 24 ore, pensò Fleming, si può immaginare l'intero pianeta come un orologio e dividerla in 24 spicchi, considerando come "zero" l'antimeridiano di Greenwich e scomponendo il resto del globo in zone non dipendenti dai meridiani.
Tornato in Canada, 18 febbraio 1879 presentò la sua idea al Royal Canadian Institute, da lui fondato esattamente trent'anni prima e nel tempo diventato una voce potente nel campo della ricerca scientifica; fu la cassa di risonanza ideale per dare credito alla sua trovata.
Fleming lavorò al progetto per altri cinque anni, promuovendo il sistema di fusi orari nelle principali sedi del dibattito scientifico mondiale, e finalmente nel 1884 riuscì nel suo intento. Quello stesso anno si tenne a Washington l'International Prime Meridian Conference, al termine della quale venne finalmente approvato l'Universal Standard Time da lui inventato, anche se con fusi orari diversi da quelli che aveva proposto.
Ci volle un po' di tempo perché il sistema venisse accettato, ma a partire dal 1930 praticamente tutti gli Stati si adeguarono al fuso orario di Fleming; oggi non possiamo nemmeno immaginare come sarebbe il mondo senza la divisione in zone e orari. Fleming fu riconosciuto universalmente come un grande uomo, e non solo di scienza; nel 1897 fu nominato cavaliere dalla regina Vittoria, mentre nel 1901 venne inaugurata la Fleming Hall alla Queen's University di Kingston, nell'Ontario, dove fu rettore dal 1880 fino alla morte.

sabato 30 aprile 2016

Internet Day, 30 anni di internet in Italia

Internet in Italia è arrivato dal cielo, era il 30 aprile 1986. Il primo messaggio che ci avrebbe collegato a quella che doveva diventare la grande rete del mondo è partito da Pisa, in via Santa Maria in Via, dove allora c’era la sede di un istituto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Cnuce. Da lì è passato su un cavo telefonico della Sip (l’attuale Tim) fino alla stazione di Frascati dell’Italcable, la società che gestiva le chiamate internazionali, da dove è stato dirottato al vicino Fucino, in Abruzzo. Qui da un’antenna di Telespazio, ancora oggi in funzione, è stato sparato verso il satellite Intelsat IV, che orbitava sopra l’Atlantico, ed è sceso in picchiata verso la stazione satellitare di Roaring Creek, che la Comsat aveva aperto due anni prima in Pennsylvania. Era il 30 aprile 1986. L’Italia si era collegata a Internet. E non se ne accorse nessuno.
Il mondo in quei giorni era attonito per la tragedia dell’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl, avvenuta quattro giorni. Internet non esisteva nella coscienza collettiva. Non esisteva neanche nel comunicato che qualche giorno dopo, con tutta calma, venne predisposto a Pisa. Si parlava di collegamento di Pisa ad Arpanet, la rete che era nata negli Stati Uniti nell’ottobre del 1969 per collegare i computer di molte università americane.
Ma da allora quella rete si era allargata e grazie ad un protocollo progettato nel 1973 in Silicon Valley da Vint Cerf e Bob Kahn, era diventata Internet: una rete di reti.
L'altra grande invenzione fu il World Wide Web (www), nel 1991, ma questa è un'altra storia.

giovedì 28 aprile 2016

Ricarica senza fili per le auto elettriche

Qualcomm è un marchio poco noto a chi non è appassionato di tecnologia, ma è nelle tasche di tutti noi: sua, infatti, è la stragrande maggioranza dei processori degli smartphone. Ebbene, Qualcomm ha l'obiettivo di modificare, anzi rivoluzionare, la mobilità, trasformandola in elettrica, connessa ed autonoma. Nella visione dell'azienda americana, i veicoli ricaricheranno le proprie batterie non solo durante ogni sosta (al supermercato, a casa, in ufficio), ma anche in movimento su corsie elettrificate.

Si prevede che fra 20 anni vivrà in città il 70% delle popolazione mondiale. Sarà indispensabile ridurre le emissioni inquinanti e anche le dimensioni dei veicoli.

Qualcomm pensa di dare energia alle batterie dei veicoli mediante delle piastre annegate nel terreno: nei parcheggi dei supermercati e delle scuole, delle abitazioni private e degli uffici pubblici, degli uffici e persino a bordo strada.

Una piastra quadrata grande circa 80x80 cm e annegata nel terreno si connette senza fili ad un'altra (circa 20x20) montata sotto il pianale del veicolo, che così si ricarica. Ma come si fa a esser certi di essersi posizionati correttamente? Lo dice un'app per smartphone

L'evoluzione più affascinante è però quella delle corsie in cui la ricarica si può effettuare in movimento: le batterie “succhiano” energia dal fondo stradale mentre si circola normalmente. Non è certo la prima volta che se ne parla, ma il momento buono arrivato: a breve partiranno i lavori a Parigi.
Resta da capire se la rete elettrica è pronta a fornire cosìì tanta potenza per la ricarica dei veicoli: altrimenti il rischio black out è molto concreto.

giovedì 21 aprile 2016

L'invenzione del Metro

All'indomani della Rivoluzione Francese, l'Assemblea Nazionale Costituente promosse l'uniformazione sotto un unico sistema di tutte le misure e le grandezze utilizzate nei vari Stati. Per riuscire nell'intento, figlio dello spirito illuministico, radunò i più eminenti scienziati e studiosi dell'epoca, tutti di nazionalità francese a parte il torinese - ma trapiantato Oltralpe - Giuseppe Luigi Lagrangia (più noto con il nome francese Joseph-Louis Lagrange).
La Commissione era formata dai matematici de Borda, de Caritat, Monge, da Lagrange, dall'astronomo Simon, dall'agronomo Tillet e dal chimico Lavoisier.
Al termine dei lavori furono presentati due rapporti: il primo il 27 ottobre 1790 e il secondo il 19 marzo 1791. In quest'ultimo resoconto venne data la definizione di metro: era così stata "inventata" la prima unità di misura veramente universale, dalla quale poi far discendere tutte le altre, in multipli o sottomultipli.
Con il decreto del 7 aprile 1795 venne diffuso il Sistema Metrico Decimale e nel 1799 fu realizzata una barra di platino della lunghezza di un metro, da esporre al Museo delle Arti e dei Mestieri di Parigi.
Il sistema non si impose subito in tutti i Paesi, anzi faticò molto a essere adottato, ma l'esigenza di avere una scala universale di misurazione, soprattutto per facilitare il commercio fra i diversi Stati, alla fine prevalse su qualsiasi riluttanza.
Nel 1801, il metro fu adottato ufficialmente dalla Francia, nel 1816 da Belgio, Olanda e Lussemburgo, nel 1849 dalla Spagna, mentre in Italia si dovette attendere il 1860; nell'Unione Sovietica arrivò nel 1918 al termine della Rivoluzione, tre anni più tardi uscì per la prima volta dall'Europa con l'adozione da parte del Giappone e successivamente della Cina; altri quarant'anni furono invece necessari al Regno Unito, che aderì al sistema soltanto nel 1963.
Gli Stati Uniti restano ancora oggi fedeli alle proprie unità di misura, raro esempio di Stato nel quale il metro inventato dalla Commissione non è mai stato accettato.

domenica 17 aprile 2016

Cyberbullismo: cos’ è?

Internet ha aperto nuove possibilità per tutti noi. L’altra faccia della medaglia è però rappresentata dai rischi legati ad un uso improprio di questo strumento: tra questi c’è il cyberbullismo. 
Per i giovani che stanno crescendo a contatto con le nuove tecnologie, la distinzione tra vita online e vita offline è davvero minima. Le attività che i ragazzi svolgono online o attraverso i media tecnologici hanno quindi spesso conseguenze anche nella loro vita reale. Allo stesso modo, le vite online influenzano anche il modo di comportarsi dei ragazzi offline, e questo elemento ha diverse ricadute che devono essere prese in considerazione per comprendere a fondo il cyberbullismo.
Il cyberbullismo è l’uso delle nuove tecnologie per intimorire, molestare, mettere in imbarazzo, far sentire a disagio o escludere altre persone.  
Tutto questo può avvenire utilizzando diverse modalità offerte dai nuovi media: telefonate, messaggi, chat, social network, ecc.
Le modalità specifiche con cui i ragazzi realizzano atti di cyberbullismo sono molte: pettegolezzi diffusi attraverso messaggi sui cellulari, mail, social network, postando o inoltrando informazioni, immagini o video imbarazzanti (incluse quelle false), rubando l’identità e il profilo di altri, o costruendone di falsi, al fine di mettere in imbarazzo o danneggiare la reputazione della vittima, insultando o deridendo la vittima attraverso messaggi sul cellulare, mail, social network, blog o altri media, facendo minacce fisiche alla vittima attraverso un qualsiasi media.
 Queste aggressioni possono far seguito a episodi di bullismo (scolastico o più in generale nei luoghi di aggregazione dei ragazzi) o essere comportamenti solo online. 

giovedì 14 aprile 2016

L'invenzione del container

Figlio di un agricoltore di origini scozzesi, Malcolm McLean iniziò giovanissimo a lavorare vendendo le uova della fattoria di famiglia, per poi comprare un vecchio camion di seconda mano e fare l'autotrasportatore.
Un giorno del 1937, mentre, fermo al porto, aspettava il suo turno per scaricare il camion, andò a prendere le sigarette al distributore automatico ed ebbe l'idea che cambiò il trasporto mondiale delle merci. All'epoca il carico delle merci su una nave era un procedimento lungo e laborioso: ogni camion andava scaricato e le merci venivano stivate una per una a bordo della nave.
McLean osservò i pacchetti di sigarette impilati nel distributore, poi si voltò a guardare l'attività nel porto. In quell'istante si rese conto che se la merce fosse stata inserita in un contenitore che si poteva staccare dal camion per essere portato direttamente sulla nave, sarebbe stato tutto molto più semplice. Se poi i contenitori fossero stati realizzati nel modo giusto si sarebbero potuti impilare come i pacchetti di sigarette del distributore. Era nata l'idea del container.
Per quasi vent'anni McLean tenne la sua straordinaria idea chiusa nel cassetto, aspettando il momento buono per metterla in pratica. L'occasione arrivò nel 1955: McLean vendette l'azienda, ormai florida, per comprare due navi, residuati bellici della Seconda guerra mondiale. In meno di un anno le ristrutturò, le dotò di una piattaforma sul ponte per caricare e scaricare i cassoni, e infine progettò e realizzò i primi container.
Il 26 aprile 1956 dal porto di Newark salpò la Ideal X, con 58 container a bordo, ognuno dei quali conteneva quasi 20 tonnellate di merce; arrivata a Port Houston, sua destinazione finale, McLean fece due conti: normalmente un carico costava 5,83 dollari la tonnellata, a lui era costato 0,16 dollari.
Il container invase il mondo in un batter d'occhio. Già agli inizi degli anni Ottanta praticamente tutti i Paesi erano attrezzati per ricevere le navi cariche di container, e oggi questo è lo strumento principale per trasportare merci in tutto il mondo.
In seguito, McLean vendette la nuova società, la Sea-Land, alla Reynolds Tobacco e poi alla Maersk, oggi tra le più grandi aziende di trasporto del mondo. Realizzato il sogno della sua vita e diventato miliardario, si ritirò dagli affari, costruendo un'immensa fattoria in quella campagna da cui la sua storia era partita.

giovedì 17 marzo 2016

Chi ha inventato l'airbag?

Uscire illesi da un brutto incidente spesso porta a riflettere sul senso della vita e sulla sua caducità. Per John Hetrick fu l'occasione di ragionare su un dispositivo che, in seguito, avrebbe salvato la vita di migliaia di persone.
Nella primavera del 1952 si trovava a bordo della sua Chrysler insieme alla moglie e alla figlia di sette anni, al rientro da una gita domenicale. Superato un dosso, si trovarono davanti un masso che, dalla scarpata che costeggiava la carreggiata, era franato in mezzo alla strada. John fu rapido a schivare il masso e, insieme alla moglie, ad alzare le braccia per impedire che la figlia sbattesse contro il cruscotto. Finirono nel fosso laterale, dove il fango attutì il colpo: tutti illesi, conducente, passeggeri e macchina.
Tornato a casa sotto shock, Hetrick si mise subito a studiare un sistema che permettesse di frapporre qualcosa fra i passeggeri e il cruscotto dell'auto. Si ispirò a un evento che gli era capitato quando era in marina qualche anno prima: stava riparando un siluro coperto da una telo, quando venne rilasciata l'aria compressa contenuta nel siluro, che gonfiò il telo facendolo schizzare sul soffitto. Cominciò pertanto a pensare a un cuscino da posizionare sotto il volante, che si gonfiasse in una frazione di secondo per poi sgonfiarsi a poco a poco. Depositò il brevetto nell'agosto del 1952, pochi mesi dopo l'incidente, ma ci volle molto tempo prima che l'airbag si diffondesse tra le case automobilistiche.
L'idea di Hetrick, per funzionare correttamente, richiese numerosi test e miglioramenti tecnologici, tra cui il sensore di impatto, inventato da Allen K. Breed, per cui solo negli anni Settanta le case automobilistiche americane iniziarono a commercializzare i primi modelli con questo dispositivo a bordo. Ma non fu un successo e fu abbandonato.
Ritornò sul mercato nel 1984 quando fu presentato dalla Mercedes prima sui modelli di alta gamma, poi anche su tutti gli altri. Sulla scia del successo tedesco, dopo qualche anno Ford e General Motors lo riproposero come optional, fino a quando una legge del governo americano lo impose a tutti i veicoli costruiti dopo il 1989, rendendolo un equipaggiamento standard. Ma intanto erano passati più di trent'anni, e Hetrick non ebbe alcun compenso per la sua invenzione, se non la gratitudine di coloro a cui aveva salvato la vita

mercoledì 9 marzo 2016

L'invenzione del telefono cellulare

Una mattina di dicembre del 1972, Rudy Krolop, uno dei migliori ingegneri della Motorola, fu convocato d'urgenza da Martin Cooper, direttore Ricerca e Sviluppo dell'azienda, affinché progettasse, in solo un mese e mezzo, un telefono senza fili. La fretta nasceva dalla necessità di dover presentare, entro sei settimane da quel giorno, un prototipo funzionante di telefono cellulare alla FCC (Federal Communications Commission, l'ente americano per le telecomunicazioni) per essere inseriti in un progetto pilota, cui avrebbe partecipato anche la concorrente AT&T, volto al perfezionamento dei vecchi telefoni trasportabili per auto, inventati nel 1946.
Fu così che Krolopp riunì i suoi tecnici e si mise a lavorare per tre giorni e tre notti consecutivi. Alla fine il suo team presentò due modelli, uno più grande e uno più piccolo. Al termine di una lunga cena fu scelto il telefono mattone più grande: era nato il DynaTAC, il primo telefono cellulare della storia. Fu un'impresa straordinaria.
Il 3 aprile 1973, tra lo stupore dei passanti, Martin Cooper, da una strada di New York, telefonò al rivale Joel Engel, direttore Ricerca e Sviluppo dei Laboratori Bell, di proprietà della AT&T. Fu la prima telefonata da un telefono cellulare.
Prima di lanciare un modello commerciale, però, era necessario costruire tutta l'infrastruttura di ponti radio e di ripetitori in grado di garantire la copertura del territorio. Così bisognò aspettare il 21 settembre 1983 per il debutto del Motorola DynaTAC 8000X, dal peso di 800 grammi e grande come una scarpa. E proprio da una scarpa era nata l'idea del modello. Krolopp seguiva con interesse le avventure dell' "agente Smart", protagonista di un telefilm molto popolare negli anni Sessanta. Nel suo equipaggiamento tecnologicamente avanzato, il personaggio aveva una scarpa con una tastiera sotto la suola che si trasformava in un telefono. Con quell'immagine in mente, Krolopp mise a punto il suo modello. Fu un successo, soprattutto dopo l'apparizione nel film Wall Street, dove Micheal Douglas usò il cellulare per chiamare all'alba Martin Sheen dalla spiaggia.
Il Motorola 8000X costava 3.995 dollari, ma con l'avvento del successivo MicroTAC e del fondamentale StarTAC nel 1996 (evoluzione del modello piccolo scartato nel 1973, opportunamente aggiornato e perfezionato) il telefonino cominciò a entrare nelle tasche di tutti.

martedì 9 febbraio 2016

L’auto elettrica nata al Politecnico

Un mezzo elettrico con range extender (il sistema che genera l’energia a bordo del veicolo) e ha un’autonomia di oltre 400 chilometri. Si chiama XAM 2.0 ed è un prototipo realizzato dal Politecnico di Torino, in collaborazione con BeOnD.
Il mezzo, pensato per gli spostamenti urbani, può raggiungere gli 80 km/h e monta una batteria, ricaricabile dalla rete domestica in 6 ore, che assicura all’auto, quando marcia in modalità totalmente elettrica, un’autonomia di circa 70 chilometri. Oltre all’unità elettrica, la XAM 2.0 ha anche un piccolo motore a benzina (il cui serbatoio ha la capacità di circa 10 litri) , la cui funzione non è di far muovere l’auto, ma di alimentare il generatore che carica la batteria: nella modalità ibrida, il prototipo torinese raggiunge l’autonomia, come si è detto, di oltre 400 chilometri.
L’idea è nata una decina di anni fa, nelle aule del Politecnico: «Nel 2007 serviva un ricercatore che seguisse il team di studenti dedicato alla progettazione di veicoli per partecipare alla Shell Eco Marathon — racconta Massimiliana Carello, professore aggregato al dipartimento di Ingegneria meccanica e aerospaziale, co-fondatrice di BeOnD —, così mi sono proposta. All’inizio eravamo pochissimi, in seguito si sono uniti parecchi studenti, diventati poi dottorandi. Man mano, l’attività di ricerca è diventata anche un’idea imprenditoriale».
Dai prototipi della Shell Eco Marathon, il team è passato a realizzare un vero veicolo da strada, lo XAM 2.0 appunto. Il sogno dei fondatori (oltre alla Carello, due ex studenti, Andrea Airale e Alessandro Ferraris, più Paolo Massai, ingegnere che ha trascorso gran parte della vita professionale nel mondo dell’auto, dalla Lancia all’Alfa Romeo, e oggi è professore a contratto del Politecnico di Torino) è quello di vedere un giorno il prototipo diventare un veicolo di serie. Ma lo scopo immediato è un altro: «Vogliamo progettare soluzioni innovative per il settore automotive — spiega la docente — applicabili anche ad altri veicoli». Ed è questo il core business che oggi tiene in piedi la startup che, per fatturare e proseguire nella ricerca, offre consulenze tecniche ad aziende del settore.