lunedì 30 luglio 2018

Plastiche biodegradabili


l riciclo della plastica, fino a oggi invocato come una delle soluzioni per combattere l’inquinamento, non è più sufficiente.
Secondo uno studio della Scuola Agraria del Parco di Monza, l’unica soluzione sarebbe quella di dare uno stop alla produzione e alla commercializzazione dei prodotti usa e getta.
Secondo l’indagine, il riciclo – più volte indicato come strada maestra da percorrere – sarebbe insufficiente per fermare l’invasione della plastica.
Ipotesi questa supportata anche dai dati raccolti nel 2017 da Corepla (il consorzio nazionale per la raccolta, il riciclo e il recupero degli imballaggi in plastica), che mostrano come in Italia solo 4 imballaggi di plastica su 10 di tutti quelli immessi sul mercato vengono effettivamente riciclati; dei rimanenti, 4 vengono bruciati negli inceneritori – pratica tutt’altro che priva di conseguenze negative per l’ambiente.
Un’altra soluzione sono le eco-plastiche. Per esempio la plastica biodegradabile che si scioglie in acqua: un’idea rivoluzionaria, che aiuterebbe a risolvere i gravi problemi all’ambiente e alla fauna marina.
La soluzione l’ha trovata un gruppo di ingegneri cileni, usando il calcare al posto del petrolio. La nuova plastica, sarà di nuovo usata nei supermercati e nei bar, ma la sua componente biodegradabile anzi solubile, non inquinerà.
Oppure altre innovazioni, questa volta italiane, delle plastiche biodegradabili ricavate da scarti di lavorazioni agricole.
Unico problema: sono più care delle plastiche tradizionali fatte di petrolio. Ai governi tocca con la tassazione favorire le nuove plastiche e disincentivare le vecchie inquinanti.

mercoledì 25 luglio 2018

Italia a rischio desertificazione

È presto per immaginare le nostre città circondate da gigantesche dune di sabbia percorse da carovane di dromedari, ma indubbiamente la situazione è seria. In effetti, fino a 5.000 anni fa anche il deserto del Sahara era un'immensa distesa di boschi, fiumi e laghi. Poi il clima cambiò. Così, lentamente, si trasformò in un luogo polveroso e secco e il silenzio prese il sopravvento su tutto.
Non è detto che il destino dell'Italia sia questo ma è bene sapere che la desertificazione è in progressiva espansione in molte aree del mondo, tanto che ogni anno almeno sei milioni di ettari di terreno perdono la loro fertilità, e il nostro Paese non fa eccezione. Alcuni studi parlano di un terzo del territorio italiano a rischio e che il 5% è già desertificato. Le regioni più interessate sono Basilicata, Campania, Calabria, Sardegna e Sicilia, ma anche territori tradizionalmente umidi e produttivi.
Il processo di desertificazione è causato da una combinazione di fattori: quelli naturali includono l'aumento della temperatura, la scarsità prolungata di piogge (mentre quelle brevi e intense rimuovono il fertile strato superficiale del terreno) e la forte evaporazione, ovvero l'acqua che dalle piante e dai terreno passa all'aria sotto forma di vapore. Ma giocano un ruolo significativo anche la pendenza del terreno (dove questa è maggiore viene trattenuta meno acqua), l'erosione del vento e la salinizzazione delle coste, cioè un accumulo di sale nel suolo, che impedisce la vita delle piante.
A peggiorare la situazione, accelerando il fenomeno, intervengono le cause "umane": l'abbattimento di boschi e foreste toglie al suolo una protezione fondamentale, così come gli incendi, spesso provocati intenzionalmente per creare terreni liberi per l'allevamento o per le costruzioni edilizie. L'agricoltura e i pascoli intensivi lo "spremono" senza dargli la possibilità di rigenerarsi. Infine l'eccessivo prelievo di acqua contribuisce a lasciarlo a bocca asciutta.

lunedì 16 luglio 2018

Come stanno i nostri mari?


È stato sufficiente poco più di un secolo per trasformare mari e oceani da grandi serbatoi di vita animale e vegetale a luoghi assediati dallo sfruttamento e soffocati dall'inquinamento. I trasporti marittimi e ancora di più le sostanze inquinanti che arrivano dalla terraferma, come gli scarichi e i liquami delle città (più della metà della popolazione mondiale vive a meno di 100 chilometri da una costa e due terzi delle grandi metropoli del mondo sono città costiere), delle industrie, dell'agricoltura e dell'allevamento stanno lentamente avvelenando l'ecosistema marino.
Nel Golfo del Messico c'è addirittura una "zona biologicamente morta", causata da un cocktail di pesticidi, fertilizzanti, scarichi industriali e fognari, trasportati dal Mississippi. Un'area grande quasi come l'Emilia Romagna, oggi completamente priva di organismi viventi.
In alto mare la situazione non è migliore. Qui non è l'inquinamento il problema principale. Il pesce sta vertiginosamente diminuendo, sotto i colpi implacabili della richiesta del mercato e delle migliaia di pescherecci che incrociano nelle acque del Pianeta.
Si pesca troppo e male.
Lo sviluppo della tecnologia ha visto infatti aumentare smisuratamente le capacità distruttive dell'uomo. Ne sono un esempio le moderne factory trawler, enormi navi che sono vere e proprie fabbriche galleggianti, capaci di catturare 500 tonnellate di pesce al giorno, di lavorarlo e congelarlo, senza mai dover rientrare in porto.
Secondo la FAO (l’organizzazione delle Nazioni Unite per il Cibo e l’Agricoltura) quasi tutte le maggiori aree di pesca del mondo sono già completamente sfruttate o addirittura esaurite. Inoltre, non tutto il pesce che finisce nelle reti è interessante dal punto di vista economico. Così i pescatori ributtano morto in mare quello che non può essere venduto, perché non ha mercato o perché appartiene a specie la cui pesca è vietata. Vengono chiamate catture accessorie e si calcola che siano un terzo del pescato annuale mondiale.

giovedì 12 luglio 2018

Rischio sismico: sei preparato?

L’Italia è un Paese sismico
Negli ultimi mille anni, circa 3000 terremoti hanno provocato danni più o meno gravi. Quasi 300 di questi (con una magnitudo superiore a 5.5) hanno avuto effetti distruttivi e addirittura uno ogni dieci anni ha avuto effetti catastrofici, con un’energia paragonabile al terremoto dell’Aquila del 2009. Tutti i comuni italiani possono subire danni da terremoti, ma i terremoti più forti si concentrano in alcune aree ben precise: nell’Italia Nord-Orientale (Friuli Venezia Giulia e Veneto), nella Liguria Occidentale, nell’Appennino Settentrionale (dalla Garfagnana al Riminese), e soprattutto lungo tutto l’Appennino Centrale e Meridionale, in Calabria e in Sicilia Orientale. Anche tu vivi in una zona pericolosa, dove in passato già si sono verificati terremoti o se ne sono avvertiti gli effetti. E ciò potrà accadere ancora in futuro.
Cosa succede a un edificio?
Una scossa sismica provoca oscillazioni, più o meno forti, che scuotono in vario modo gli edifici. Le oscillazioni più dannose sono quelle orizzontali. Gli edifici più antichi e quelli non progettati per resistere al terremoto possono non sopportare tali oscillazioni, e dunque rappresentare un pericolo per le persone. È il crollo delle case che uccide, non il terremoto. Oggi, tutti i nuovi edifici devono essere costruiti rispettando le normative sismiche.

Anche il prossimo terremoto farà danni?
Dipende soprattutto dalla forza del terremoto (se ne verificano migliaia ogni anno, la maggior parte di modesta energia) e dalla vulnerabilità degli edifici. Nella zona in cui vivi già in passato i terremoti hanno provocato danni a cose e persone. È possibile quindi che il prossimo forte terremoto faccia danni: per questo è importante informarsi, fare prevenzione ed essere preparati a un’eventuale scossa di terremoto.

Quando avverrà il prossimo terremoto?
Nessuno può saperlo, perché potrebbe verificarsi in qualsiasi momento. Sui terremoti sappiamo molte cose, ma non è ancora possibile prevedere con certezza quando, con quale forza e precisamente dove si verificheranno. Sappiamo bene, però, quali sono le zone più pericolose e cosa possiamo aspettarci da una scossa: essere preparati è il modo migliore per prevenire e ridurre le conseguenze di un terremoto.

Gli effetti di un terremoto sono gli stessi ovunque?
A parità di distanza dall’epicentro, l’intensità dello scuotimento provocato dal terremoto dipende dalle condizioni del territorio, in particolare dal tipo di terreno e dalla forma del paesaggio. In genere, lo scuotimento è maggiore nelle zone in cui i terreni sono soffici, minore sui terreni rigidi come la roccia; anche la posizione ha effetti sull’intensità dello scuotimento, che è maggiore sulla cima dei rilievi e lungo i bordi delle scarpate.

domenica 8 luglio 2018

Inquinamento indoor: le insidie degli ambienti chiusi


Se pensate che chiudere porte e finestre sia la cosa migliore da fare per «lasciare fuori» l'aria inquinata siete sulla strada sbagliata. Anzi, paradossalmente, è l'aria che respiriamo in casa quella potenzialmente più inquinata. Secondo l'ultimo report dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), al mondo nove persone su 10 respirano aria dai valori medi al di sopra dei livelli raccomandati per la salvaguardia della salute. Se l'aria «sporca» è causa di oltre 7 milioni di decessi l'anno, quattro sono da imputarsi a quella degli ambienti chiusi. E non è finita qui: l'inquinamento indoor  così viene chiamato in gergo  è spesso causa di dermatiti, fastidi agli occhi e alla gola, tosse e mal di testa. D'altra parte il 90% della nostra vita si svolge in ambienti artificiali.
Tre grandi categorie. I pericoli arrivano da inquinanti chimici, biologici e fisici, in parte di origine esterna e in parte interna. Responsabili sono gli occupanti stessi degli ambienti e poi l'arredamento, i materiali edili e gli impianti di condizionamento. Prelevando campioni di polvere nell'aria di casa è possibile rilevare la presenza di oltre 40 sostanze potenzialmente dannose. Quando si cucina. Tra gli inquinanti chimici, i più comuni sono i composti organici volatili come il benzene, la formaldeide, il toluene, gli ossidi di azoto e zolfo e il monossido di carbonio. Le cause sono diverse e vanno dal fumo di sigaretta ai processi di combustione che si generano quando si cucina. Ancora peggio se si utilizzano stufe a legna e caminetti. Insospettabili, eppure sotto accusa, sono i materiali utilizzati per l'arredamento come la formaldeide. Altre potenziali fonti «sporche» sono i prodotti per la pulizia e la manutenzione della casa, oltre ai prodotti antiparassitari, alle colle e ai solventi. Tra gli inquinanti biologici, invece, microrganismi e muffe: le loro colonie possono moltiplicarsi negli impianti di umidificazione e nei condizionatori, nei sistemi di riscaldamento e nei frigoriferi.
Poi c’è il pericolo radon, un gas naturale inodore e insapore che viene generato dall'uranio nella crosta terrestre, in quantità diverse da luogo a luogo. Molti suoli e molti materiali da costruzione ne emanano una certa quantità: se all'aperto si disperde nell'atmosfera, nelle case può concentrarsi nei locali interrati o seminterrati e al piano terra. Gli studi epidemiologici dimostrano che l'esposizione a concentrazioni elevate di radon aumenta il rischio di tumori polmonari.
Che cosa fare, allora? Se sul mercato ci sono diverse soluzioni tecnologiche per purificare l'aria ma si può cominciare da tante piccole accortezze. Gli esperti della Società di medicina ambientale sono chiari: non fumare in casa, evitare temperatura e umidità elevate, aprire le finestre almeno due-tre volte al giorno per cinque minuti. E poi utilizzare la cappa quando si cucina, effettuare una corretta manutenzione degli impianti di riscaldamento, usare con parsimonia prodotti per la pulizia e deodoranti, rimuovere, se possibile, i tappeti, passare di frequente l'aspirapolvere, tenere in casa piante da appartamento.

martedì 3 luglio 2018

La fibra di carbonio

La fibra di carbonio,  è un materiale ultraleggero, rigido ed estremamente forte. Ha tutte le carte in regola per sostituire l’acciaio ed è impiegato nella produzione di veicoli ad alte prestazioni come auto da corsa, biciclette, aerei o più comunemente è utilizzata per la produzione di attrezzature sportive: racchette da tennis, canne da pesca, ecc.
La fibra di carbonio è stata sviluppata nel 1958, presso un laboratorio di Claveland, nell’Ohio anche se il primo vero sviluppo produttivo è stato realizzato nel 1963 in un laboratorio britannico, è qui che sono stati messi in evidenza i punti forti di questo materiale.
Per produrre la fibra di carbonio si può partire da diverse materie prime. Il precursore più comune per la produzione della fibra di carbonio è il PAN (Poliacrilonitrile), questo rappresenta più del 90 per cento di tutta la produzione di fibra di carbonio.
Il PAN, prima di essere trasformato in fibra di carbonio, deve subire diversi processi che richiedono alte temperature e molta energia.
Le fibre di carbonio sono sempre più diffuse in ambito ciclistico: la McLaren ha lanciato una bici hitech che pesa soltanto 950 grammi, realizzata in fibra di carbonio (costa 5.000 euro). Si stima che l’impiego della fibra di carbonio in ambito automobilistico potrebbe ridurre il peso dell’auto di circa il 50 per cento così da migliorare l’efficienza del carburante di almeno il 35 per cento. Il vantaggio della fibra di carbonio è che non comprometterebbe le performance di guida, sia in termini di sicurezza che di stabilità. Tale impiego assicurerebbe all'automobilista un risparmio sul carburante di oltre 4.000 euro ma il prezzo di acquisto della vettura sarebbe proibitivo. In più è utilizzata per la realizzazione di componenti delle pale eoliche e apparecchi elettronici.