lunedì 27 luglio 2020

L'albicocca

La mela armena. Così i romani chiamavano l'albicocca, perché pensavano che venisse dall'Armenia. Ma in realtà il frutto viene da più lontano: alla Persia, se non addirittura dalla Cina. In ogni caso da quel favoloso frutteto del mondo che fu l'Oriente, un oriente mitico più che geografico. Una location esotica, una terra da mille e una notte piena di misteri e ricca di primizie. Nei dialetti rimane traccia dell'origine armena: in piemontese per esempio l'albicocca è ancora chiamata armugnan.

Arrivò dopo le conquiste di Alessandro Magno, sulle rive del Mediterraneo. Conosciuta in Europa grazie ai Romani all'inizio dell'era cristiana, ebbe un periodo di oblio durante il Medioevo. Furono gli Arabi a reintrodurre la coltivazione dell'albicocco attorno al X secolo, non solo per finalità gastronomiche ma anche a scopi farmacologici.

Primizia significa in origine il nome dell'albicocca che deriva dal latino praecocum, letteralmente «precoce». Con questo termine i romani inizialmente chiamavano tutte quante le primizie. Ma quando questa parola finisce sulla bocca degli arabi diventa al-berquq. È il passo decisivo verso i nomi moderni del frutto arancione, come lo spagnolo albaricoque, il francese abricot, l'inglese apricot, il tedesco Aprikose e il nostro albicocca. Così a furia di rimbalzi fra Oriente e Occidente, l'albicocca finisce per diventare la primizia per antonomasia.  A riprova del fatto che l'origine di un cibo è il racconto di un millenario ping-pong fra le culture, di un rimescolamento di idee, di passioni, di gusti. Una storia di migrazioni gastronomiche, di meticciati alimentari. Proprio come capita ai viaggiatori, gli alimenti passando da una terra all'altra finiscono sempre per assomigliare al paese che visitano, ne assumono insomma gli umori anche senza volere. 

È quel che capita alle albicocche quando arrivano a Napoli e trovano la loro terra promessa ai piedi del Vesuvio, in quella lava nera come la pece e fertile come una madre. In quel crocevia del Mediterraneo sospeso, come diceva Goethe, tra il bello e il terribile, quella che fu la mela armena si carica della straripante energia del vulcano. La vampata di rossore che illumina il velluto arancione della sua pelle delicata è il segno caratteristico che l'albicocca si è fatta vesuviana. Duecentotrenta minerali diversi distillati dalla terra, eruzione dopo eruzione, fanno la differenza. Perché le pendici del vulcano non sono soltanto il giardino più fertile del mondo ma un'autentica, inarrestabile colata di sapore.

La buccia del frutto è di colore variabile dal giallo pallido al rosso aranciato. La sua polpa, vivace e preziosamente profumata, oltre ad essere piuttosto nutriente e' ricca di sali minerali e vitamine, utili nella terapia delle anemie, dei difetti della vista e del mal d'orecchi. 

Nella cosmesi popolare l’albicocca e' stata sempre accoppiata anche alla cura della pelle. L’olio ottenuto dai suoi semi, racchiusi nel nocciolo, e' molto efficace sia per il trattamento delle smagliature che delle rughe.
Particolarmente digeribili, le albicocche possono essere consummate fresche, secche, sciroppate e anche sotto forma di succo. Ai piu' golosi, ricordiamo che e' proprio a base di albicocche la marmellata usata per farcire la squisita torta Sacher, celebre specialita' della tradizione dolciaria Viennese. Scelta veramente felice, dato che l'unione tra il sapore a tratti acidulo di questo frutto e quello denso del cioccolato, nonostante l'apparente contrasto, ha generato una delle piu' grandi delizie del mondo.

Il bacino del Mediterraneo, è comunque la zona di maggior diffusione dell’albicocca, dove si raccoglie circa il 60% dell’intera produzione mondiale. Altre importanti zone produttive sono l’Asia Minore, la California e l’Europa orientale. I principali paesi produttori di albicocche sono, nell’ordine, Turchia, Russia, Spagna, Italia, Stati Uniti, Francia e Grecia.

In Italia si producono più di 1.800.000 quintali di albicocche all’anno e ben l’84% del raccolto si ottiene in sole quattro regioni: Campania (38,7%), Emilia-Romagna (26,6%), Basilicata (13,3%) e Sicilia (5,5%), in queste zone la pianta dell’albicocco trova le sue condizioni ottimali per crescere e produrre.

venerdì 17 luglio 2020

Il grande ritorno del Plexiglas

Il Polimetilmetacrilato (PMMA per le persone più familiari) è uno dei grandi protagonisti della “fase due” della pandemia, quella in cui il grande picco iniziale dei contagi è passato e si cerca di ritornare alla vita normale limitando i rischi di un ritorno del virus. Il PMMA, un materiale plastico trasparente e molto resistente, è l’ideale per costruire scudi, divisori e cabine chesono comparse un po’ dovunque per proteggere le persone dalle particelle volanti cariche di virus emesse durante una conversazione, tossendo o, semplicemente, respirando.

Il Plexiglas venne inventato da Otto Röhm, il chimico tedesco che alla fine degli anni Trenta fondò la Röhm & Haas, oggi Röhm GmbH. L’azienda iniziò producendo vetri di sicurezza per le automobili che avevano al loro interno uno strato di materiale acrilico. Negli anni la società fondata da Röhm ha perfezionato i suoi metodi di lavoro e ha iniziato a sviluppare materiale altamente tecnologici, come i fogli di materiale plastico utilizzati nell’industria aerospaziale.

Quasi nessuno utilizza il nome tecnico per definire questo materiale diventato improvvisamente così utile. In genere si parla di “Plexiglas”, che però è una parola come “Scottex” o “Tetrapak”: cioè è il nome commerciale di un oggetto specifico, prodotto da un certo marchio e diventato poi il nome di tutti gli oggetti simili, anche quelli prodotti dalla concorrenza.

Il PMMA (abbreviato metacrilato) esiste dagli anni Trenta, quando diverse società brevettarono materiali plastici trasparenti e molto resistenti. Oggi la fabbrica tedesca che lo registrò con il nome “Plexiglas” - la Röhm GmbH - stava passando un brutto periodo prima dello scoppio della pandemia. L’azienda soffriva in particolare per le difficoltà del settore automobilistico e delle costruzioni, i suoi due principali clienti. Il nuovo piano industriale, dei proprietari che lo scorso luglio avevano acquistato l’azienda per 3,2 miliardi di euro, prevedeva tagli alla produzione e riduzione degli orari di lavoro negli impianti della società più colpiti dalla crisi.

A partire da marzo, però, la divisione che si occupa di produrre il Plexiglas ha visto un improvviso aumento della domanda. Dal giorno alla notte il Plexiglas è diventato onnipresente e necessario. Fino ad oggi, la produzione di Plexiglas non era un business particolarmente eccitante: offriva ridotti margini di guadagno ed era sottoposto a ciclici crolli della domanda e quindi del prezzo. Negli ultimi anni il settore aveva ricevuto una piccola iniezione di energia grazie alla crescente domanda di schermi per gli smartphone ma aveva dovuto fare i conti con la crisi nella vendita di automobili, dove il Plexiglas e i suoi equivalenti sono utilizzati per la produzione delle luci interne all’abitacolo e negli indicatori del cruscotto. 

A partire dai mesi di marzo e aprile le cose sono iniziate a cambiare. Decine di governi in tutto il mondo hanno reso obbligatorio installare divisori e separatori in quasi tutti i luoghi pubblici. Ospedali, ristoranti, cinema, teatri e uffici hanno iniziato ad acquitare massicciamente pannelli di metacrilato, il materiale più leggero, economico e resistente per questo scopo.

venerdì 10 luglio 2020

Il camion elettrico è all'orizzonte

Dall’Europa agli Stati Uniti l’industria dei veicoli si sta preparando a cambiare pelle: auto e camion elettrici premono alle porte delle fabbriche e sarà sempre più difficile scansare questa rivoluzione, anche se finora il suo percorso è stato parecchio tortuoso.
La California ha appena stabilito un sistema di quote obbligatorie, che partirà nel 2024,  per la vendita di camion elettrici a batterie o idrogeno. Con quote crescenti fino al 2035 quando la maggioranza dei camion venduti dovrà essere a zero emissioni.
Insomma la California ha posto quella che dovrebbe diventare una pietra miliare per la rivoluzione elettrica dei trasporti “pesanti”, volta a ridurre l’inquinamento provocato dall’ingente traffico delle merci su gomma, guardando sia alle consegne nei centri urbani sia alle lunghe percorrenze.

Volkswagen deve ancora scontare il suo “peccato originale”, quel dieselgate scoppiato nel 2015 quando si scoprì che il colosso di Wolfsburg stava manipolando i software dei motori diesel per barare sui test delle emissioni. Ora deve dimostrare che la sua corsa verso la mobilità elettrica è reale.

La fabbrica di  Zwickau, dopo 6 milioni di auto benzina e diesel sfornate dal 1990 al 2000 a marchio Volkswagen, sta per essere trasformata in un un impianto totalmente dedicato alle auto elettriche: 330.000 veicoli già dal prossimo anno. 

La Germania ha varato un piano di incentivi per le sole auto elettriche mentre l'Italia tentenna: gli incenti vengono dati sia per auto elettriche sia per auto termiche con motore euro 6. Insomma, bisogna guardare avanti senza inciampare nuovamente nel diesel, altrimenti c’è il rischio di allungare molto la strada verso la rivoluzione elettrica.

la vendita di auto elettriche dunque aumenta ma lentamente e i buoni risultati dal punto di vista emissioni sono rallentati dal crescente numero di SUV venduti, con emissioni non proprio bassine.