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mercoledì 2 febbraio 2022

Big-Migranti

Dalla fine di novembre Parag Agrawal è il nuovo capo di Twitter e si è aggiunto al gruppo sempre più folto di amministratori delegati che controllano le grandi aziende tecnologiche, migrati dall’IINDIA agli USA . A capo di Alphabet (la società che controlla Google)  troviamo, ormai dal 2015, Sundar Pichai, a capo di Microsoft, Satya Nadella,  da Adobe troviamo Shantanu Narayen, da  IBM, Arvind Krishna. Messi insieme, controllano aziende con un valore di mercato complessivo intorno ai 5mila miliardi di dollari (il doppio del PIL dell’Africa).

Hanno tutti in comune la  formazione in uno degli Istituti indiani di tecnologia, le università specializzate soprattutto nella formazione informatica. Gli IIT sono pubblici e la loro storia risale  al 1947, quando era nata la necessità di organizzare meglio la formazione universitaria in ambito scientifico e tecnologico nel paese.

Sono oggi presenti in 23 città dell’India e sono considerate università prestigiose non solo tra gli indiani, ma anche nei paesi occidentali dove è via via aumentata la domanda di ingegneri elettronici e informatici. La loro frequenza  garantisce grandi opportunità lavorative e per questo ogni anno milioni di giovani fanno domanda d’iscrizione con una selezione piuttosto severa (ne entra uno su cento).

Negli IIT, gli appartenenti alle classi più ricche hanno di solito maggiori opportunità di carriera, ma è comunque vero che la formazione ricevuta consente a chi parte più svantaggiato di trovare lavoro o di proseguire gli studi all’estero: gli Stati Uniti sono una delle principali destinazioni degli studenti delle IIT.

La rapida crescita degli ultimi decenni nel settore tecnologico negli Stati Uniti ha fatto sì che ci sia un’alta domanda di ingegneri informatici, che non può essere colmata attingendo unicamente dalle più importanti università statunitensi. Per questo motivo molte aziende cercano nuovi impiegati tra gli studenti degli IIT e le finanziano anche.

sabato 31 agosto 2019

Aria pesante in India


Secondo i più recenti dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’India detiene il poco invidiabile primato di essere il Paese con le 10 città più inquinate dell’intero Pianeta.
Delhi è avvolta in una perenne caligine che ha più a che fare con la chimica che con il meteo. Respirarne l'aria è come fumare 50 sigarette al giorno, dicono. Non a caso conducenti e passanti sempre più spesso indossano mascherine o la loro versione più spartana, una sciarpa avvolta attorno alla bocca e al naso.
Al record contribuisce un mix micidiale di veleni vecchi e nuovi. Dall'onnipresente carbonella usata per alimentare fornelli e stufe agli scarichi delle auto, dei pullman, dei camion e degli Ape modificati per trasportare passeggeri. Per non parlare dei fumi tossici provenienti dalle campagne, dove è tradizione bruciare i campi per prepararli alle nuove colture. O delle emissioni delle industrie, o di quelle delle centrali a carbone. C’è poi l'abitudine diffusa di bruciare la spazzatura e i rifiuti in plastica per tentare di ridurne la presenza di lagante, e la polvere alzata dall'intensa attività di costruzione di strade ed edifici.
Anche secondo il rapporto elaborato da Greenpeace l'India domina come paese più inquinato del mondo, superando la sua diretta concorrente, la Cina, che si sta attrezzando meglio per affrontare il problema.
In India il numero delle vittime dell'inquinamento è aumentato costantemente, passando dai 737.400 decessi del 1990 ai 1,09 milioni del 2015, rendendolo la quarta causa di morte nel Paese. Per il 2019 le stime più pessimistiche parlano di 7 milioni di morti premature. Anche il ricorso alle fonti rinnovabili, come l'energia da pannelli solari, è vanificato dalla coltre di smog, con un minor rendimento stimato in un miliardo di dollari l'anno.
Insufficienti, per ora, le contromisure. Anche se proprio quest'anno è iniziato il primo Programma nazionale per l'aria pulita. Un ambizioso piano d’azione quinquennale che prevede un investimento di 45 milioni di dollari in 2 anni per affrontare l’inquinamento atmosferico di 102 città indiane.

martedì 8 novembre 2016

New Delhi chiusa per smog

Non si vede l’alba da almeno una settimana. Ogni tanto si scorge una sfera incandescente che affonda in un abisso di polvere. È il sole. Il sole di Delhi che soffoca nel peggior smog degli ultimi 20 anni, a livello di allarme «severo»: 1800 scuole pubbliche chiuse per tre giorni, costruzioni e abbattimenti edilizi interrotti per 5 giorni, proibiti i generatori a diesel per 10 giorni, sospesi tutti gli incontri sportivi. 
C’è chi si non riesce a dormire perché gli bruciano i polmoni anche dentro stanze con l’aria condizionata, chi trova smog nei corridoi di alberghi e palazzi. 
Chi può permetterselo scappa dalla città. Auto e furgoncini carichi di valigie, alla ricerca di una boccata d’aria pulita dopo giorni a tossire dentro le mascherine anti-smog. Molti decidono di andarsene per sempre da Delhi, non riuscendo più a convivere con malattie polmonari, malesseri e insonnia. Fuga da quella Delhi che doveva essere, sì, una seconda Pechino, ma che per il momento dai cinesi ha ereditato solo l’inquinamento record, che ha fatto anche chiudere la centrale a carbone di Badpur.
Parliamo di un livello di polveri salito 15 volte oltre il livello di sicurezza indiano e 70 volte oltre quello dell’Organizzazione mondiale della sanità: 900 microgrammi per metro cubo, visibilità sotto i 400 metri. Cifre paragonabili al Grande Smog di Londra del 1952 che causò la morte di 4 mila persone. E chi non può scappare, sfila per protesta con cartelli che dicono: «Non siamo Hiroshima».
Chi sono i colpevoli? Con il raffreddarsi dell’aria, l’inquinamento peggiora sempre e le cause sono, oltre al traffico, anche i molti fuochi a cielo aperto, le fabbriche e la cementificazione di una città, 18 milioni di abitanti, già sovrappopolata. Il tutto peggiorato dalla siccità. La causa principale sono gli agricoltori del Punjab, Stato confinante dove in questa stagione bruciano la parte del grano che rimane in terra dopo il taglio delle spighe. «Siamo in una camera a gas» ha detto Kejriwal, disperato. Dal satellite si vedono enormi nuvoloni neri che dalle campagne, spinte da venti provenienti da nord, portano veri e propri Godzilla di fumo alti chilometri fin sopra la metropoli. 
E poi c’è stato il Diwali, la Festa delle Luci, forse la più importante celebrazione induista annuale, quando moltissime città si trasformano in un orgia di botti, deflagrazioni e fuochi d’artificio, seguiti da dense onde di caligine.
La soluzione migliore al momento pare sia il «cloud seeding», ovvero la pioggia artificiale. Si tratta di spruzzare sale o ioduro d’argento dai jet sulle nuvole per causare condensa e precipitazioni. Probabilità di successo: poche.
Naturalmente, essendo in India, non può mancare l’aspetto religioso e pop. Da giorni è in viaggio verso Delhi il «Baba Ambiente», guru che promette di bruciare legni sacrificali speciali (altro fumo?) per «scacciare il Demone dell’Inquinamento», acquietando così 330 milioni di divinità dell’induismo. Intanto la nuova moda sui social è quella degli «smogfies»: farsi selfie nello smog indossando mascherine che poco possono fare per ridurre l’avvelenamento da polveri sottili.