Alcuni ricercatori hanno cominciato a ragionare sulla correlazione tra inquinamento da polveri sottili e diffusione del recente coronavirus. La diffusione della mortalità per il virus infatti non è stata uniforme sul territorio italiano. All'Ospedale San Raffaele di Milano è stato prodotto uno studio che ipotizza una maggiore sensibilità e mortalità al virus nelle aree in cui le persone da anni respirano area ricca di PM10 e PM 2,5. Chi è stato infettato in aree urbane inquinate ha manifestato sintomi respiratori più gravi rispetto a chi, prima della sua infezione, ha respirato aria più pulita. E in un gran numero di casi, a parità di età, questa differenza ha fatto da discrimine tra la vita e la morte.
Lo studio ha evidenziato che nelle regioni italiane con livelli di inquinamento da polveri ultrasottili (PM2,5) più elevate (Piemonte, Lombardia, Veneto e Emilia Romagna) con concentrazione media di PM2,5 nel febbraio 2020 da 39 a 30 microgrammi per metro cubo, la mortalità è stata il doppio (14%) di quella registrata in regioni meno inquinate (7%) (Toscana, Marche e Liguria) con livelli di PM2,5 più basse (da 12 a 5 microgrammi per metro cubo). E nelle regioni più inquinate anche il tasso di ricoveri intensivi e quelli ospedalieri è risultato statisticamente maggiore.
Gli autori hanno ipotizzato che anche gli alti livelli di NO2, che caratterizzano le regioni italiane in cui si sono registrati i più elevati tassi di mortalità, possano essere una concausa di questo disastro sanitario. Il biossido di azoto crea una produzione anomala di una proteina (ACE-2) a cui si attacca il virus. Più molecole di proteina sono attaccate e meno il corpo sa difendersi dall'infiammazione.
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