È stato sufficiente poco più di un secolo per trasformare
mari e oceani da grandi serbatoi di vita animale e vegetale a luoghi assediati
dallo sfruttamento e soffocati dall'inquinamento. I trasporti marittimi e
ancora di più le sostanze inquinanti che arrivano dalla terraferma, come gli
scarichi e i liquami delle città (più della metà della popolazione mondiale
vive a meno di 100 chilometri da una costa e due terzi delle grandi metropoli
del mondo sono città costiere), delle industrie, dell'agricoltura e
dell'allevamento stanno lentamente avvelenando l'ecosistema marino.
Nel Golfo del Messico c'è addirittura una "zona
biologicamente morta", causata da un cocktail di pesticidi, fertilizzanti,
scarichi industriali e fognari, trasportati dal Mississippi. Un'area grande
quasi come l'Emilia Romagna, oggi completamente priva di organismi viventi.
In alto mare la situazione non è migliore. Qui non è
l'inquinamento il problema principale. Il pesce sta vertiginosamente
diminuendo, sotto i colpi implacabili della richiesta del mercato e delle
migliaia di pescherecci che incrociano nelle acque del Pianeta.
Si pesca troppo e male.
Lo sviluppo della tecnologia ha visto infatti aumentare
smisuratamente le capacità distruttive dell'uomo. Ne sono un esempio le moderne
factory trawler, enormi navi che sono vere e proprie fabbriche galleggianti,
capaci di catturare 500 tonnellate di pesce al giorno, di lavorarlo e
congelarlo, senza mai dover rientrare in porto.
Secondo la FAO (l’organizzazione delle Nazioni Unite per il
Cibo e l’Agricoltura) quasi tutte le maggiori aree di pesca del mondo sono già
completamente sfruttate o addirittura esaurite. Inoltre, non tutto il pesce che
finisce nelle reti è interessante dal punto di vista economico. Così i
pescatori ributtano morto in mare quello che non può essere venduto, perché non
ha mercato o perché appartiene a specie la cui pesca è vietata. Vengono
chiamate catture accessorie e si calcola che siano un terzo del pescato annuale
mondiale.
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