L’accordo raggiunto a Parigi lo scorso 12 dicembre, al
termine della COP21 è il primo passo di una presa di coscienza globale sui
cambiamenti climatici, non certo la riparazione dei danni fatti in due secoli e
mezzo di sviluppo industriale. Questa soglia, come hanno sottolineato in molti,
mette le risorse fossili “dalla parte sbagliata della storia” e obbliga gli
aderenti a optare per soluzioni energetiche smart, rinnovabili e pulite.
Dall’obiettivo dei 2°C, i leader hanno deciso di abbassare
l’asticella di mezzo grado centigrado in meno a un + 1,5°C rispetto ai livelli
preindustriali che è, comunque, un obiettivo che non mette al sicuro le
comunità più vulnerabili. Diciamo che si tratta di una soglia minima di
sopravvivenza per le popolazioni costiere e per le isole che rischiano di
scomparire per l’innalzamento del mare conseguente allo scioglimento dei
ghiacci polari.
Dopo la conferenza le legislazioni dei singoli Paesi
dovranno favorire gli investimenti tesi a rendere le nostre case, i nostri
autoveicoli e i nostri luoghi di lavoro maggiormente efficienti. Ogni due anni
le singole nazioni saranno chiamate a compiere una valutazione dei progressi.
Uno dei nodi principali della COP21 erano i diversi livelli
di sviluppo dei Paesi chiamati a intervenire per rallentare i cambiamenti
climatici. Come si è risolta questa discrepanza? Con una diversa richiesta di
impegno: ai Paesi sviluppati vengono richiesti “obiettivi di riduzione”, ai
paesi in via di sviluppo “sforzi di mitigazione”.
Inoltre l’accordo prevede un fondo di investimento misto
(pubblico e privato) di 100 miliardi di dollari l’anno, a partire dal 2020, che
supporti i Paesi a basso reddito a proteggersi dalle minacce legate al
cambiamento climatico globale.
Secondo il presidente di Legambiente gli impegni presi sono
sufficienti a ridurre soltanto di un grado il trend attuale di crescita delle
emissioni di gas-serra, con una tendenza verso i 3°C. Non consentono, quindi,
di contenere il riscaldamento del pianeta ben al di sotto della soglia critica
dei 2°C, e ancor meno rispetto al limite di 1.5°C. Per molti esperti un forte
limite è l’assenza di sanzioni e obblighi per i Paesi che non rimangono nei
parametri fissati.
Per entrare in vigore dovrà essere oggetto di una
ratificazione, accettazione e approvazione di almeno 55 Paesi rappresentanti
almeno il 55% delle emissioni mondiali.
Gli impegni dei singoli Paesi in merito alla riduzione delle
emissioni non hanno valore vincolante essendo volontari ma ogni entità
nazionale ha l’obbligo di stabilirne uno e valutarne l’eventuale aggiustamento
ogni cinque anni. Anche senza sanzioni, i Paesi trasgressori dovranno comunque
rispondere del mancato raggiungimento degli obiettivi alla comunità internazionale
e all’opinione pubblica.