lunedì 21 dicembre 2009

Vertice sull'ambiente di Copenaghen

cop.jpgNei giorni scorsi, come avrete ampiamente sentito dai TG e dai giornali, (si, spero che a volte leggiate i giornali), si è svolto il vertice di Copenaghen per fare il punto sulle politiche ambientali a livello mondiale. Doveva essere un aggiornamento degli accordi presi a Kyoto nel 1997 ma alla chiusura il vertice è stato valutato come un fallimento perché il documento finale non contiene impegni precisi che obblighi gli stati a ridurre le emissioni in atmosfera. La lettura di un avvenimento del genere non è facile perché la politica, l’economia e la difesa dell’ambiente sono fittamente intrecciate.

L’articolo che segue, per Repubblica.it di Federico Rampini, mi pare ci faccia capire che Copenaghen non è stato un completo fallimento, se visto non dalla parte di noi occidentali ma dall’altra parte.

 

Le ragioni della vittoria politica di "Cindia" al vertice sul cambiamento climatico? Il responsabile Onu per l'ambiente Yvo de Boer le riassume così: "In India 400 milioni di persone vivono senza accesso alla corrente elettrica. Come gli dici di spegnere una lampadina che non hanno?" È ciò che il premier indiano Manmohan Singh aveva in mente quando ha detto: "Ogni accordo sul clima deve considerare i bisogni di crescita delle nazioni in via di sviluppo". Se a qualcosa è servito Copenaghen, forse è proprio questo. Mai più l'Occidente potrà dettare tempi e regole per far fronte all'emergenza ambientale, ignorando che il saccheggio dell'ambiente visto dai paesi emergenti è anzitutto un lascito nostro.

"Tutto il mondo dovrebbe essere felice per i risultati del vertice", ha detto raggiante Xie Zhenhua, il capodelegazione cinese, nel riprendere l'aereo per Pechino. La sua esultanza non lasciava dubbi sull'esito. "Noi cinesi - ha aggiunto Xie - abbiamo preservato il nostro interesse nazionale e la nostra sovranità". Non è proprio così che Barack Obama ha cercato di vendere agli americani l'accordo finale. Un punto qualificante dell'intesa raggiunta in extremis è la concessione cinese che gli impegni a ridurre le emissioni di CO2 andranno verificati nella trasparenza, con un monitoraggio internazionale. Ma quanto la Cina sarà davvero aperta a forme di ispezioni straniere, alla fine lo decideranno a Pechino, valutando di volta in volta i propri interessi.

Se ci fosse bisogno di una conferma del successo politico di Pechino e Delhi, l'ha data un autorevole consigliere di Obama rivelando i retroscena del vertice ai giornalisti di ritorno a Washington sull'Air Force One. Le ultime ore convulse di trattative per salvare Copenaghen dal fiasco totale, Obama le ha passate a rincorrere il premier cinese ("Datemi il primo ministro Wen, dov'è finito Wen?"). Wen si nascondeva in albergo. E a negoziare con il presidente degli Stati Uniti mandava un sottosegretario agli Esteri. In quanto a Singh, la delegazione Usa è stata presa dal panico quando a vertice ancora aperto è giunto l'annuncio: "Gli indiani sono già all'aeroporto, hanno deciso che non serve rimanere e stanno imbarcando sull'aereo di Stato per tornare a casa". Alla fine Obama ha dovuto, letteralmente, imbucarsi a una riunione in cui nessuno lo aveva invitato: un meeting tra i dirigenti di Cina, India, Brasile e Sudafrica, cioè il nuovo gruppo "Basic". Obama aveva capito che se voleva salvare una parvenza di risultato al vertice, le cose si decidevano lì dentro.


E' uno choc per due aree del mondo che avrebbero potuto contare molto di più: l'Unione europea e il Giappone, spesso all'avanguardia nelle normative sull'ambiente, ma ininfluenti a Copenaghen. Mai Obama ha cercato una sponda con loro. Dando prova di senso tattico, il presidente americano ha "marcato" solo i giocatori che contavano. Perché la chiave dei nuovi equilibri politici mondiali, è nella capacità di Cina e India di giocare su due sponde. Sono superpotenze economiche in competizione con l'Occidente (anche nella quantità di gas carbonici). Al tempo stesso conservano la capacità di rappresentare paesi emergenti ben più poveri di loro.

Un esempio è proprio la difesa che la Repubblica Popolare ha fatto della propria sovranità nazionale, contro la "trasparenza". Perché questa campagna cinese ha trovato comprensione in molti paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America latina? In parte perché si tratta di governi-clienti di Pechino, avvinghiati in robuste reti di relazioni commerciali, finanziarie, militari. Ma c'è una ragione più nobile, l'ha spiegata il presidente brasiliano Lula da Silva: "L'Occidente deve stare attento alle interferenze. Quando i cinesi si battono contro le ingerenze, ad altri paesi in via di sviluppo vengono in mente i tempi in cui mandavate i vostri diktat attraverso il Fondo monetario e la Banca mondiale".

Mark Levine, scienziato ambientalista al Lawrence Berkeley National Laboratory, che in qualità di esperto ha accompagnato Barack Obama sia in Cina che a Copenaghen, è convinto che i leader di Pechino non sottovalutino affatto i danni del cambiamento climatico: "Stanno investendo molto nelle energie alternative. E sull'auto elettrica, vogliono arrivare prima loro di noi. Ma al tempo stesso vogliono affermare il principio che su questo terreno non tocca a noi dare lezioni".

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